Contro le “riforme” del premierato e l’autonomia differenziata
- Resistenza Popolare
- 22 lug 2024
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La proposta di premierato e la riforma sull'autonomia promosse dal governo Meloni non rappresentano solo un attacco alla democrazia e alla coesione sociale del nostro Paese, ma sono parte di una più ampia strategia di dominio che si inserisce nel contesto di una Terza Guerra Mondiale non dichiarata ma già in atto. In questa fase storica, dove le tensioni geopolitiche si intensificano e gli interessi economici delle grandi potenze si scontrano, queste riforme rappresentano un ulteriore tassello del piano delle élite borghesi per accentuare il controllo socio-politico di un Paese ormai sempre più ingovernabile, a causa della crescente sfiducia popolare verso le forze politiche esistenti.
Premierato: l’anticamera di un regime autoritario
Con la proposta di premierato, il presidente eletto, il “premier”, sarebbe necessariamente un parlamentare, eletto a suffragio universale diretto in un solo turno, congiuntamente alle due Camere, e rimarrebbe in carica per una durata fissa di cinque anni, per non più di due mandati pieni. Se sfiduciato, il “premier” potrebbe essere sostituito una sola volta da un altro parlamentare, purché della stessa coalizione e/o partito che ne abbia permesso l’elezione. Unitamente a questa misura, tesa a sfavorire la nascita di coalizioni variabili e di governi “tecnici”, è da segnalare la volontà, per ora procrastinata dopo il sorgere di furibonde proteste, di assegnare un cospicuo premio di maggioranza alla coalizione che ha sostenuto il “premier” uscito vincitore dallo scrutinio, attribuendole il 55% dei seggi.
In questa progettualità il Capo dello Stato viene svuotato sostanzialmente di alcune sue prerogative, diventando un mero esecutore dei “suggerimenti” del “premier” riguardo la scelta e la revoca dei ministri. La nostra contrarietà all’uomo forte al comando non ci fa dimenticare l’oggettivo ampliamento dei poteri del Presidente della Repubblica, sempre meno figura neutrale di garanzia e sempre più figura di parte impegnata a mantenere il nostro Paese asservito agli interessi borghesi transnazionali attraverso una serie di mezzucci al limite della costituzionalità: doppi mandati, rifiuto di nominare ministri troppo critici contro l’Ue (vd caso Savona), nomine politiche di senatori a vita come Andreotti e Monti, incarichi a “tecnici” come Draghi, eccessivi “suggerimenti” legislativi, ecc.
Si riduce inoltre ulteriormente il ruolo del Parlamento, già pesantemente colpito da anni di controriforme e prassi discutibili che ne hanno limitato la rappresentanza popolare (vd taglio del numero dei parlamentari) e le prerogative (vd uso ormai sistematico dei decreti legislativi).
I sostenitori della riforma battono sul tema della “stabilità politica” ricordando che, storicamente, l’Italia ha attraversato decenni di instabilità politica con governi brevi, brevissimi, alcuni di minoranza e spesso “monocolore”: è vero che in 77 anni di storia repubblicana si sono susseguiti ben 68 esecutivi, ma ci si dimentica sempre di ricordare che l’instabilità è derivata dalla subalternità della politica italiana agli interessi degli Stati Uniti d’America e delle oligarchie padronali, capaci di costruire e disfare i governi a seconda dei propri desiderata. La soluzione per ottenere stabilità politica non passa quindi da riforme autoritarie come questa, ma al contrario dal recupero della sovranità nazionale e popolare per eliminare le manovre classiste e le destabilizzazioni imperialiste.
La proposta di premierato, che mira quindi a concentrare il potere esecutivo nelle mani del Primo Ministro, non è solo una misura per garantire maggiore stabilità governativa. È una mossa strategica per rafforzare il potere dell'oligarchia economica, riducendo al minimo la capacità di opposizione politica e sociale. In un contesto internazionale segnato da crescenti conflitti e rivalità, la centralizzazione del potere è un passaggio necessario per controllare più efficacemente la popolazione e reprimere qualsiasi forma di dissenso.
Questa centralizzazione del potere mina il principio liberale della divisione dei poteri e si inserisce perfettamente nel quadro delle politiche autoritarie che stanno emergendo in vari Paesi occidentali, dove i governi utilizzano la scusa della sicurezza e della stabilità per erodere libertà civili e diritti democratici. Il premierato, in questo senso, non è solo un attacco alla democrazia liberale rappresentativa costruita dai padri costituenti, ma un passo ulteriore verso un presidenzialismo forte che prosegue, sul modello statunitense, la via della personalizzazione populista della politica, creando le premesse potenziali per l'instaurazione di un regime autoritario che risponda più facilmente agli interessi del grande capitale internazionale.
Non è evidentemente un caso che la proposta meloniana di rafforzamento del potere esecutivo presenti evidenti affinità non solo con le misure prese a suo tempo da Benito Mussolini negli anni ’20, ma anche con il programma del piano della loggia massonica P2 di Licio Gelli (anni ’80) teso a smantellare la repubblica parlamentare fondata su un sistema di rappresentanza proporzionale. Non si possono dimenticare le responsabilità anche di esponenti del centro-sinistra nell’aver sdoganato il tema: si ricordi in tal senso la bozza di Cesare Salvi nell’ambito della bicamerale D’Alema-Berlusconi (fine anni ’90), che prevedeva proprio l’elezione diretta del “primo ministro” che avrebbe scelto e sfiduciato i ministri.
L’autonomia differenziata: dividi et impera
La riforma sull'autonomia differenziata rappresenta un pericoloso passo verso la frammentazione dell'unità nazionale, alimentando diseguaglianze e divisioni sociali, in perfetta sintonia con l'ideologia neoliberista che ha imperversato negli ultimi decenni. Lungi dal risolvere le disparità regionali, essa le acuisce, ponendo le basi per un sistema di governance che privilegia i territori economicamente più forti a discapito di quelli più deboli, tradendo il principio di solidarietà che dovrebbe animare uno Stato democratico.
È vero che la nostra Costituzione (art. 5) colloca il riconoscimento e la promozione delle autonomie locali tra i principi fondamentali della Repubblica, ma le inserisce all’interno di una cornice unitaria e democratica, in cui lo Stato si impegna a far valere tutte le sue prerogative tenendo conto delle istanze e dei bisogni che provengono dai territori, nell’ottica di un decentramento che è definito come puramente amministrativo.
Non così è stato inteso dal centro-sinistra: ricordiamo infatti che l'autonomia differenziata promossa dalla Lega ha trovato una sponda importante nelle leggi promulgate da Franco Bassanini nel 1997 (tra cui quella della disastrosa autonomia scolastica) quando era Ministro della Funzione Pubblica e degli Affari Regionale del I Governo Prodi. Si tratta quindi di un processo trasversale di lungo periodo che, a ben vedere, denuncia la penetrazione di logiche capitalistiche anche nello Stato e nella vita delle sue istituzioni. L’assunto sulla base del quale fino ad ora sono stati modificati i rapporti tra Stato ed autonomie locali in un senso di fatto federalista, è pressappoco il seguente: le istituzioni locali per promuovere lo sviluppo dei territori devono essere autonome e soprattutto in concorrenza tra di loro. Le scuole devono competere tra loro; le Asl devono competere tra loro; i Comuni devono competere tra loro; le Regioni devono competere tra loro, e così via. Il principio della competizione elevato a formula di governo spalanca le porte alla privatizzazione dei servizi pubblici essenziali e penalizza i territori più disagiati, i quali partono da una condizione iniziale di arretratezza e di svantaggio che così non potrà mai essere superata.
La verità è che questa riforma si configura come l'ennesima mossa della borghesia per consolidare il proprio dominio, frammentando il proletariato e ostacolando l'unità di classe. Le regioni più ricche, come Lombardia e Veneto, già epicentri di un capitalismo avanzato e finanziarizzato, beneficeranno di ulteriori risorse e poteri, mentre il Sud e le aree periferiche verranno ulteriormente depauperate, aggravando la già pesantissima “questione meridionale”. Questa disparità si traduce in un aumento della competitività interregionale che favorisce esclusivamente i grandi capitali, a detrimento dei lavoratori e delle classi subalterne.
La retorica del “regionalismo differenziato”, promossa non a caso dalle istituzioni europee e dalle “nuove destre” di origine tradizionalista, neoconservatrice e post-fascista, maschera la volontà di trasferire ulteriori competenze alle regioni, riducendo così la capacità di intervento dello Stato centrale in settori cruciali come sanità, istruzione e infrastrutture. In questo modo, si accelerano i processi di privatizzazione e mercificazione dei servizi pubblici, rispondendo agli interessi dei gruppi economici dominanti. La sanità, in particolare, diventerà sempre più diseguale, con una qualità dei servizi che dipenderà dalla ricchezza della regione di appartenenza, negando di fatto il diritto universale alla salute sancito dalla Costituzione.
La spinta verso l'autonomia differenziata, assottigliando ulteriormente il “salario sociale” ereditato dalla prima repubblica, non è altro che un attacco frontale alla classe lavoratrice e alla sua capacità di organizzarsi e lottare contro le ingiustizie. La frammentazione del territorio nazionale e delle competenze amministrative indebolisce il potere contrattuale dei lavoratori, spezzando l'unità necessaria per affrontare e sconfiggere il potere borghese.
In conclusione, la riforma sull'autonomia differenziata promossa dal governo Meloni rappresenta una minaccia alla coesione nazionale e alla giustizia sociale. Questa frammentazione non solo accentua le disuguaglianze territoriali, ma crea anche un terreno fertile per la destabilizzazione e l'intervento esterno. Le regioni più ricche, trattenendo una quota maggiore delle risorse fiscali, si staccheranno sempre più dal resto del Paese, mentre le regioni più povere verranno abbandonate a sé stesse, prede facili per le multinazionali e gli interessi stranieri. È il classico divide et impera, applicato in un contesto di guerra globale militare e sociale.
Non solo in ossequio alle istanze dell’internazionalismo proletario, ma anche di quelle del patriottismo che ci caratterizza, saremo risolutamente a favore dei referendum tesi a cancellare questo provvedimento anti-italiano che annienta i sacrifici di quanti sono morti, fin dall’800, combattendo guerre per l’unificazione politica e territoriale del Paese. Stesso discorso vale per la Resistenza antifascista: con questa legge vedremo nullificato il sacrificio degli oltre 44.700 partigiani morti e 21.200 mutilati e invalidi per liberare l’Italia dall’invasore nazista e dal collaborazionista fascista; siamo contro una legge che distrugge l'unità nazionale e la giustizia sociale e sosteniamo i comitati che lottano contro questo provvedimento secessionista.
Conclusioni
Nel contesto della Terza Guerra Mondiale e della crisi dell’imperialismo occidentale, la proposta di premierato e la riforma sull'autonomia rappresentano parte della strategia delle élite per consolidare il proprio potere. La concentrazione del potere nelle mani di pochi e la frammentazione del Paese sono funzionali a questo disegno di dominio. In una situazione di crescente instabilità globale, dove le crisi economiche e i conflitti armati si intrecciano, è essenziale per le élite capitaliste avere governi forti e autoritari che possano garantire l'ordine interno e l'adesione alle politiche neoliberiste.
Di fronte a questa minaccia globale, la risposta della classe lavoratrice deve essere altrettanto globale e radicale. È necessario comprendere che la proposta di premierato e la riforma sull'autonomia non sono semplici questioni interne, ma parte di una strategia di controllo globale che richiede una risposta unitaria e decisa. La classe lavoratrice, superando le divisioni regionali e settoriali, deve organizzarsi e mobilitarsi per rispondere a questi attacchi alla Costituzione e ai diritti sociali e civili residui di cui dispone.
Occorre prendere atto che dopo la stagione della “prima repubblica” - caratterizzata da un tacito sostanziale compromesso di classe tra capitale e lavoro – e la grande controffensiva padronale che si è dispiegata nella “seconda repubblica” tuttora in corso, occorre costruire una “terza repubblica” in cui rilanciare gli aspetti più progressivi della Costituzione del 1948, ripristinando una democrazia parlamentare fondata sulla rappresentanza proporzionale pura - l’unica in grado di garantire reale stabilità politica e sociale – a cui affiancare la promozione e il rafforzamento di organismi assembleari di democrazia diretta.
L’unica arma che i lavoratori possono mettere in campo per ottenere questi risultati rivoluzionari è quella dell’organizzazione, impegnandosi attivamente per i futuri referendum che si terranno sul premierato e sull’autonomia differenziata. Soprattutto su quest’ultimo, essendo abrogativo, sarà fondamentale riuscire a mobilitare la massima partecipazione possibile per superare lo scoglio del quorum del 50% più uno degli aventi diritto. Le nostre organizzazioni sono a disposizione per questi scopi.
Costituente Comunista
Movimento per la Rinascita Comunista
Patria Socialista
Resistenza Popolare
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