UN PAESE AL COLLASSO TRA DEGRADO SOCIALE, FORZE DELL’ORDINE IN DIFFICOLTÀ, IMMIGRAZIONE SENZA POLITICHE E LAVORATORI SENZA TUTELE
- Resistenza Popolare
- 10 gen
- Tempo di lettura: 17 min
di Davide Guerra,Responsabile Dipartimento Lavoro RP
07/01/2025
1) Il caso di Rimini come specchio del sistema in crisi.
Il caso di Rimini, uno di quegli eventi che sembra uscito da un film pulp, purtroppo rappresenta la dura realtà di un Paese in crisi: un carabiniere, il primo giorno dell’anno, si trova a sparare otto colpi contro un uomo armato di coltello che aveva già ferito quattro persone. Risultato: un morto, un’indagine per eccesso colposo di legittima difesa e un acceso dibattito sul ruolo delle forze dell’ordine, sull’immigrazione e, naturalmente, sulla profonda crisi che sta lacerando la nostra società.
Ma facciamo una pausa.
Questo non è un semplice fatto di cronaca da dimenticare in fretta, è un’immagine chiara di un sistema in crisi: da una parte ci sono lavoratori delle forze dell’ordine lasciate sole, costrette a operare in condizioni spesso insostenibili, dall’altra una società in cui il degrado sociale si espande come la mal’erba, alimentato da tagli al welfare, precarietà e disuguaglianze sempre più marcate.
Poi c’è il grande elefante nella stanza: l’immigrazione gestita con la stessa logica di un discount, senza alcuna pianificazione, e infine, c’è il tema cruciale della tutela legale per i lavoratori – perché sì, anche i carabinieri sono lavoratori.

Partiamo dai fatti.
Il protagonista, ovvero il morto, un cittadino egiziano di 23 anni, non era un caso isolato, ma il risultato di un sistema che fallisce su tutti i fronti: secondo i dati ISTAT del 2023, in Italia il 24% dei giovani tra i 15 e i 29 anni non studia, non lavora e non è coinvolto in alcun percorso di formazione (i noti NEET), tra gli immigrati, questa percentuale supera il 35%.
Non sorprende che molti si trovino in situazioni disperate che sfociano in violenza o illegalità quando poi la società non offre alcuna prospettiva, né agli italiani né tantomeno a chi arriva qui sperando di trovare una “terra promessa” che esiste solo nei dépliant turistici.
E i lavoratori delle forze dell’ordine?
Sono costretti a gestire questa polveriera sociale con risorse ridotte al minimo: i governi di destra e di sinistra investono nella guerra, nelle armi, ma non nella sicurezza dei nostri territori, delle nostre periferie, nella quale si spende quasi niente, nonostante la spesa militare sia in continua crescita.
Risultato?
Stipendi bassi, turni infiniti e una formazione che lascia a desiderare, eppure, questi lavoratori sono i primi a essere messi alla gogna appena qualcosa va storto.
E qui veniamo al secondo protagonista: il comandante dei carabinieri di Rimini che è stato iscritto nel registro degli indagati. Si tratta di un atto dovuto, certo, ma è anche l’ennesima dimostrazione di come questo sistema capitalista scarichi le sue contraddizioni sugli individui accentuando la guerra tra lavoratori: un carabiniere che deve sparare per difendersi, e difendere altre persone, da un immigrato disperato.
Siamo onesti: la colpa non è né del carabiniere né dell’immigrato, ma di un sistema che crea e alimenta queste situazioni, un sistema che taglia il welfare, precarizza il lavoro e utilizza l’immigrazione per abbassare i salari e dividere la classe lavoratrice.

In tutto questo, la politica non fa che soffiare sul fuoco: da una parte, abbiamo i paladini del “law and order” alla Salvini che vogliono militarizzare le strade e criminalizzare ogni forma di disagio sociale, dall’altra, i piddini che con le loro succursali piangono lacrime di coccodrillo per i migranti senza però proporre alcuna soluzione concreta: nessuno di loro ha il coraggio di dire la verità: il problema non è l’immigrato, il problema non è il carabiniere, il problema è il sistema capitalista che li mette l’uno contro l’altro.
Questo caso è il sintomo di una malattia più grande e non è una questione di “mele marce” o di incidenti isolati: è il risultato di un sistema che privilegia i profitti rispetto alle persone, e finché non cambieremo le regole del gioco, questi episodi continueranno a verificarsi, trasformando le nostre città in campi di battaglia.
2) La difficoltà delle forze dell’ordine: tra risorse insufficienti e responsabilità insostenibili.
Cosa significa essere carabiniere, poliziotto o finanziere nell’Italia di oggi?
Significa trovarsi in una trincea sociale, senza le armi adeguate e con una burocrazia che ti tiene sempre sotto pressione, significa essere il bersaglio di una crescente rabbia sociale, ma anche il primo a essere abbandonato dal sistema quando le cose vanno male. L’episodio di Rimini non è un caso isolato: è solo l’ultimo capitolo di una lunga storia che vede le forze dell’ordine in difficoltà, intrappolate in un ruolo reso insostenibile dal sistema capitalista. Partiamo dalle evidenze concrete, secondo il Sindacato Autonomo di Polizia (SAP), il numero di agenti operativi è in continua diminuzione e nello stesso periodo, le richieste di intervento sono drasticamente aumentate: IN PRATICA MENTRE I CARICHI DI LAVORO AUMENTANO, IL PERSONALE DIMINUISCE, dunque meno agenti sul territorio, turni massacranti e meno tempo per la formazione.
E non stiamo parlando di fantascienza: molte caserme mancano di risorse, le auto sono in pessime condizioni, i giubbotti antiproiettile sono scaduti e manca persino la carta per stampare i rapporti.

C’è poi c’è la questione psicologica, di cui si parla sempre troppo poco: il rapporto “STRESS E SALUTE NELLE FORZE DELL’ORDINE di Luca Pietrantoni, Gabriele Prati, Andrea Morelli” (http://www.laboratoriopoliziademocratica.org/salute/stress_e_salute_in_polizia.pdf) ha rivelato i problemi psicologici che vivono i lavoratori delle forze dell’ordine, con un aumento esponenziale di casi di depressione e burnout, sono numeri impressionanti, che raccontano di uomini e donne lasciati soli a gestire situazioni che vanno ben oltre il loro ruolo.
Come si può intervenire con lucidità in un contesto in cui ogni decisione, anche la più giusta, può costarti un’indagine, una condanna o, peggio, la tua carriera?
Prendiamo il caso di Rimini: un carabiniere ha sparato otto colpi per fermare un aggressore armato di coltello, in un contesto di caos, paura e adrenalina, ora è sotto indagine per eccesso colposo di legittima difesa.
Mentre i media si concentrano sul numero di proiettili esplosi, nessuno si chiede: cosa avrebbe dovuto fare? Avrebbe dovuto lasciarsi accoltellare? Sparare un colpo perfetto, come se fosse in un poligono e non in mezzo alla strada?
Le forze dell’ordine sono diventate uno scudo umano tra le contraddizioni del sistema e il resto della società.
Da un lato, sono chiamate a mantenere un ordine sociale basato sull’ingiustizia, a sedare proteste, a eseguire sgomberi e a gestire situazioni di degrado che derivano direttamente dalle politiche neoliberiste.
Dall’altro, sono accusate di brutalità, incompetenza ed eccesso di zelo.
Sono lavoratori, ma non possono permettersi di sbagliare.
Sono esseri umani, ma vengono trattati come robot che devono prendere decisioni perfette in un attimo. E il sistema li abbandona.

Le risorse sono scarse, i salari sono bassi e le tutele legali inesistenti. Un carabiniere indagato deve pagarsi l’avvocato di tasca propria, senza alcun supporto, e questo non vale solo per le forze dell’ordine: è lo stesso destino che tocca ai medici accusati di malasanità, agli operai incriminati per “sabotaggio” e agli insegnanti sospesi per scelte educative considerate scomode. È un sistema che scarica le sue responsabilità sui singoli lavoratori, lasciandoli soli di fronte alle conseguenze.
Ma attenzione: questo non è un elogio romantico delle forze dell’ordine, è chiaro che il loro compito principale è quello di mantenere l’ordine capitalista.
Tuttavia, è altrettanto vero che molti di loro provengono dalle stesse classi popolari che il sistema opprime, sono lavoratori intrappolati in un meccanismo che li sfrutta e li aliena: quando un carabiniere viene indagato o criminalizzato, non è perché ha “difeso il sistema”, ma perché il sistema ha bisogno di un capro espiatorio per distogliere l’attenzione dai veri problemi.
Allora, cosa fare?
Prima di tutto, dobbiamo smettere di considerare le forze dell’ordine come un blocco monolitico al servizio del potere riconoscendo che anche loro sono vittime, spesso senza rendersene conto, delle stesse dinamiche che devastano il resto della classe lavoratrice.
È fondamentale costruire una coscienza di classe che li includa, non per romanticismo, ma per strategia, perché un carabiniere, un operaio, un insegnante e un migrante hanno tutti lo stesso nemico: il capitale.
E finché non lo comprenderemo, continueremo a combatterci tra di noi, lasciando i veri colpevoli al sicuro nei loro attici di lusso.
3) Degrado sociale e tagli al welfare: il peso delle politiche neoliberiste sulle masse popolari
Se vogliamo capire perché episodi come quello di Rimini accadono, non basta guardare la cronaca, ma è necessario sollevare il tappeto e osservare il marciume che si cela sotto.
Il degrado sociale che si sta diffondendo tra le masse popolari non è un fenomeno naturale, come la pioggia o il vento. È il risultato diretto e voluto di decenni di politiche neoliberiste che hanno ridotto il welfare, precarizzato il lavoro e distrutto quel poco di solidarietà sociale che rimaneva. Iniziamo dalla “condanna dei numeri”: secondo il rapporto ISTAT del 2023, il 22,8% della popolazione italiana vive in condizioni di “grave deprivazione materiale”, si tratta di persone che non possono permettersi di riscaldare la casa, acquistare cibo adeguato o affrontare spese impreviste. Se ci concentriamo sulle famiglie con figli, questa percentuale sale ancora confermando le difficoltà maggiori nei gruppi famigliari.
E cosa fa lo Stato? TAGLIA.

Negli ultimi anni abbiamo visto un progressivo taglio nascosto o mascherato del welfare e un altrettanto meno mascherato aumento dei fondi a disposizione dei privati: si toglie ai poveri per dare ai ricchi. Il lavoro, che dovrebbe essere la base per una vita dignitosa, è diventato una trappola: o sei disoccupato o sei in una situazione precaria e se sei fortunato e hai un contratto stabile, il tuo stipendio non basta comunque a coprire le spese. Sempre secondo l’ISTAT, nel 2023 il 12% dei lavoratori italiani vive sotto la soglia di povertà, il che è un paradosso: lavori otto ore al giorno, magari anche di più, e sei comunque povero.
In una società che è un “campo di concentramento economico”, dove le masse vengono sfruttate fino all’osso, e in tantissimi casi fino alla morte, il degrado sociale non è un concetto astratto, ma una realtà che si manifesta ogni giorno: si traduce nell’aumento delle famiglie sfrattate per l’incapacità di pagare l’affitto; nella proliferazione delle città dormitorio, dove le persone vivono senza servizi, senza spazi comuni e senza prospettive future; si manifesta nell’esplosione delle dipendenze dalle droghe, dal gioco d’azzardo agli psicofarmaci, fino all’alienazione personale in siti d’incontro o frequentazioni personali al limite o oltre il moralmente ed eticamente accettabile, perché la disperazione deve essere anestetizzata in qualche modo; si evidenzia nell’aumento della microcriminalità, che rappresenta la reazione disperata di chi non ha più nulla da perdere.
Ma attenzione: questo degrado non è un evento casuale, ma una strategia ben precisa del sistema capitalista, ridurre le masse popolari alla miseria, non solo economica ma anche umana e psicologica, significa renderle più vulnerabili, più divise, più facili da corrompere, da imputare, da controllare.
Qui entra in gioco la narrazione tossica del “degrado morale”: ci viene detto che la colpa è dei giovani fannulloni, degli immigrati che “non si integrano” e delle famiglie che “non educano più i figli”, questa colossale, quanto ignobile, menzogna, è utile solo a distogliere l’attenzione dal vero responsabile, ovvero dal sistema economico che arricchisce pochi a spese di molti e da coloro che lo sostengono facendo la parte dei “servi da cortile”.
E cosa fanno le istituzioni borghesi e di sistema?
Invece di investire in politiche sociali, tagliano: la sanità pubblica è in crisi, con liste d’attesa che costringono chi può a rivolgersi al privato e chi non può a morire in silenzio; la scuola è diventata un’azienda che produce studenti-merce, pronti per essere sfruttati; i servizi sociali, che dovrebbero essere il primo scudo contro il degrado, sono stati ridotti a un guscio vuoto con sempre più pochi operatori sottopagati che spesso devono decidere chi aiutare e chi abbandonare.

Il degrado sociale, però, non colpisce tutti allo stesso modo perché colpisce in modo più severo le classi popolari, i quartieri operai, i migranti e i giovani precari, le classi dominanti, ben rappresentate dai ricchi padroni di grandi aziende o di grandi gruppi immobiliari o di case farmaceutiche o di catene di supermercati, politici politicanti, manager, calciatori (anche se non tutti), puttane e faccendieri di sistema, invece, si rifugiano nei loro quartieri di lusso, protetti dalle forze dell’ordine e da un sistema giudiziario che tutela esclusivamente i loro interessi di classe.
Questa è una guerra sociale, ma solo una parte è armata; ma come l’incendio appiccato dal piromane senza sapere dove va il vento, il degrado non si ferma ai confini delle periferie: se non viene domato, arriverà anche nei salotti buoni.
Ecco perché è fondamentale reagire, e farlo subito: la soluzione non può essere una semplice toppa, dunque non bastano bonus temporanei, politiche di “inclusione” che sono solo una facciata, o misure tampone che alimentano ulteriormente la dipendenza dallo Stato, è necessario un cambiamento radicale di sistema che metta al centro i bisogni delle persone, non i profitti.
È necessaria una lotta organizzata, una lotta di classe che parta dal basso e che miri a rovesciare completamente la situazione: il degrado sociale non è inevitabile, è una scelta politica e a scelte politiche sbagliate, dobbiamo rispondere con scelte rivoluzionarie.
4) La questione economica e la mancata tutela legale dei lavoratori: tra sfruttamento e abbandono

“La legge è uguale per tutti”.
Frase affascinante. Peccato che in Italia suoni più come una barzelletta che come una verità, soprattutto se a pronunciarla è un lavoratore accusato per questioni legate al proprio impiego.
Operai, infermieri, insegnanti, autisti e persino agenti delle forze dell’ordine: il proletario che indossa una divisa si trova schiacciato da un sistema che non protegge chi lavora, ma favorisce chi sfrutta. Una giustizia che, come sempre, ha due pesi e due misure.
Partiamo dai fatti: quando un lavoratore viene accusato di negligenza o reato sul posto di lavoro, raramente si tratta di colpa personale, spesso queste accuse nascono da condizioni imposte dall’alto come carichi di lavoro insostenibili, formazione inadeguata, normative volutamente ambigue o strumenti di lavoro insufficienti.
Ma chi paga?
Non certo il dirigente che taglia sui costi per aumentare i profitti, a risponderne è sempre l’ultimo anello della catena: quello che, con ironia, tiene in piedi l’intero sistema.
Secondo i dati dell’Associazione Nazionale dei Giuristi del Lavoro, negli ultimi cinque anni i contenziosi legali contro i lavoratori sono aumentati del 18%, mentre le denunce di irregolarità a carico delle aziende sono rimaste sostanzialmente invariate, in pratica il capitale non solo sfrutta, ma si autoassolve, scaricando ogni responsabilità sui dipendenti.
Un esempio tra tanti: un autista di autobus che, dopo ore di straordinari non retribuiti, commette un errore e provoca un incidente, chi ne risponde? Non l’azienda che gli impone turni massacranti su mezzi obsoleti, ma il singolo lavoratore, spesso lasciato solo ad affrontare le conseguenze legali ed economiche.

Il paradosso non finisce qui. In Italia, il lavoratore accusato non ha una vera rete di protezione.
I sindacati concertativi, sempre più legati alle dinamiche aziendali, evitano il confronto diretto per non compromettere i loro equilibri politici, di conseguenza, il lavoratore si trova solo, costretto a scegliere tra pagare un avvocato o mettere il pane in tavola, nel frattempo, l’azienda si muove con un esercito di consulenti e avvocati pronti a ribaltare qualsiasi accusa: questa non è giustizia bensì una macchina tritacarne progettata per schiacciare i deboli e proteggere i forti.
Il punto cruciale è proprio qui: la responsabilità.
Chi dovrebbe rispondere degli errori e dei crimini commessi nei luoghi di lavoro?
Chi ha imposto condizioni insostenibili o ha risparmiato su formazione e sicurezza?
La risposta sarebbe ovvia se vivessimo in un mondo giusto, ma nel sistema capitalista, la responsabilità è un “concetto fluido” che scorre sempre verso il basso.
Prendiamo il caso delle aziende sanitarie: gli infermieri, spesso accusati di negligenza, lavorano con carichi di lavoro che sfidano ogni logica umana, eppure, quando qualcosa va storto – un paziente che non riceve le cure in tempo, un errore nella somministrazione di farmaci – è l’infermiere a finire sotto accusa, non importa che abbia lavorato per 12 ore consecutive, senza pause, perché l’ospedale non assume abbastanza personale. La narrativa resta sempre la stessa: il colpevole è l’operatore, non il sistema.
Lo stesso discorso vale per gli operai nei settori industriali, dove la sicurezza è spesso un optional: incidenti sul lavoro, macchinari malfunzionanti, assenza di formazione, tutto questo è il risultato di scelte precise fatte da chi gestisce le aziende ma quando un operaio si infortuna o causa un danno, è lui a essere additato come irresponsabile.
I dati INAIL mostrano che nel 2023 sono stati denunciati oltre 590mila infortuni sul lavoro, ma quasi nessuna delle aziende coinvolte ha subito sanzioni significative: DI FRONTE A NUMERI DEL GENERE, PARLARE DI GIUSTIZIA E’ UN’INGIUSTIZA CHE GRIDA VENDETTA.
Ci sono anche le forze dell’ordine, spesso coinvolte in dinamiche più ampie di quanto possano gestire: qui, il problema non risiede nel singolo agente, ma nelle condizioni in cui si trova a lavorare: personale ridotto, mancanza di strumenti adeguati e formazione inadeguata, tuttavia, quando un episodio finisce sotto i riflettori, il capro espiatorio è sempre il singolo individuo, chi occupa posizioni di vertice, chi stabilisce le politiche e le priorità operative, rimane comodamente al sicuro, lontano dai riflettori e dalle aule di tribunale.
La verità è semplice, ma scomoda: nel sistema capitalistico, la giustizia non è equa per tutti, è una giustizia di classe, concepita per punire i lavoratori e proteggere i datori di lavoro, o meglio, i padroni.
Tutto ciò non è un caso perchè questo sistema è progettato per mantenere il controllo sulle masse lavoratrici, per evitare che si ribellino e mettano in discussione lo status quo.
Lasciare i lavoratori soli di fronte a accuse legali è un modo efficace per tenerli in riga, per far capire a tutti gli altri che resistere è futile. Ma resistere è fondamentale: ogni volta che un lavoratore viene accusato, ogni volta che un sindacato tradisce, ogni volta che un’azienda si sottrae alle proprie responsabilità, la lotta diventa sempre più urgente, cambiare idea sull’attuale sistema è urgente: il sistema capitalistico non si riforma, si abbatte, e l’unico modo per farlo è unirsi, organizzarsi e trasformare la rabbia in azione perché la VERA giustizia non arriverà dall’alto, ma dal basso, dal potere collettivo delle masse lavoratrici.
5) Immigrazione senza politiche: un problema strumentalizzato dal capitale.

L’immigrazione, in un sistema capitalista, è molto più di un semplice fenomeno sociale: è uno strumento strategico nelle mani del capitale per mantenere intatto il suo dominio.
Non è un caso che i flussi migratori siano lasciati a sè stessi, senza alcuna reale pianificazione o politiche di integrazione che possano garantire dignità e diritti a chi arriva, un caos non frutto di “negligenza” o “incompetenza”, ma di una precisa volontà politica ed economica: frammentare la classe lavoratrice, abbassare i salari e alimentare divisioni utili al mantenimento dello status quo.
Prendiamo i dati: secondo il rapporto Caritas-Migrantes del 2023, più della metà dei lavoratori immigrati in Italia è impiegato in settori a bassa qualifica e alta precarietà, come agricoltura, edilizia e servizi di cura, non parliamo di lavori “difficili da coprire”, come ci vogliono far credere i media mainstream, ma di mansioni che vengono deliberatamente sottopagate e rese sempre più precarie. La paga oraria media per un bracciante agricolo immigrato è di appena 4,50 euro, spesso in condizioni di semi-schiavitù, ma non è tutto: la stessa precarizzazione si estende anche ai lavoratori italiani.
Il capitale utilizza l’immigrazione come un grimaldello per scardinare ogni conquista sindacale e abbassare il costo del lavoro, e questo già dagli anni ‘80, da quando l’economista neoliberista Milton Friedman dichiarava apertamente che la manodopera immigrata rappresentava una risorsa fondamentale per mantenere bassi i salari nei Paesi sviluppati.
Oggi vediamo questa teoria applicata su scala globale, con risultati devastanti per le masse popolari: secondo un’analisi dell’OCSE, nel 2023 i salari reali in Italia sono diminuiti del 2,5%, mentre i profitti delle grandi imprese sono aumentati.
Coincidenze? Ovviamente no.
Ma come funziona questa dinamica?
La risposta è semplice: creando una competizione artificiale tra lavoratori autoctoni e migranti, ai primi si racconta che i secondi “rubano” il lavoro, le case popolari e i servizi sociali, ai secondi, invece, vengono negati diritti fondamentali, costringendoli ad accettare qualsiasi condizione pur di sopravvivere, il risultato è una guerra tra poveri che distrae entrambe le parti dal vero nemico: il capitalismo.
Non è che manchino le risorse per gestire i flussi migratori o per integrare chi arriva, è che manca la volontà politica: investire in politiche di integrazione significherebbe, infatti, mettere in discussione il modello economico attuale, basato sullo sfruttamento e sulla precarietà, e questo il capitale non può permetterselo.
Parliamo nel concreto: negli ultimi anni il budget destinato alle politiche di inclusione sociale è stato ridotto progressivamente ridotto, mentre i fondi per il controllo delle frontiere e i rimpatri sono aumentati (i lager albanesi fanno da scuola): si investe per militarizzare i confini, non per garantire percorsi di integrazione lavorativa o culturale.
Questo approccio crea un circolo vizioso: i migranti vengono relegati ai margini della società, alimentando tensioni sociali che vengono poi utilizzate per giustificare ulteriori politiche repressive (come per esempio le “zone rosse” nelle città o il DDL Sicurezza).

E qui entra in gioco la narrazione tossica dell’“immigrato invasore”: ogni crisi sociale, dalla mancanza di case popolari alla disoccupazione, viene attribuita alla presenza di migranti ma la realtà è ben diversa: secondo l’ISTAT nel corso degli ultimi anni i contributi versati da famiglie e lavoratori immigrati hanno ampiamente superato il costo delle uscite, in pratica gli immigrati, il loro lavoro, il loro sfruttamento, sono una risorsa netta, non un costo.
Eppure, questa verità scomoda viene sistematicamente occultata.
Il degrado sociale che osserviamo nei quartieri popolari non è causato dall’immigrazione, ma dalle politiche neoliberiste che hanno distrutto il welfare, precarizzato il lavoro e tagliato i servizi essenziali: l’immigrato diventa semplicemente il capro espiatorio perfetto.
Prendiamo il caso delle periferie urbane, dove la convivenza tra autoctoni e migranti è spesso difficile: la causa principale è l’assenza di investimenti pubblici che si tramuta in scuole degradate, trasporti pubblici insufficienti, mancanza di spazi comuni, in questo contesto, le tensioni sociali sono inevitabili e vengono amplificate da media e politici che hanno tutto l’interesse a seminare divisioni.
Tanti sondaggi, interviste e analisi ci riportano un dato: nei quartieri periferici e non in molti si sentono “minacciati” dalla presenza di immigrati.
Ma cosa sta realmente minacciando queste famiglie?
Non è l’immigrato, ma l’assenza di prospettive economiche, la disoccupazione crescente e l’impossibilità di accedere a servizi adeguati, in altre parole, il vero problema, la vera minaccia esistenziale è il sistema economico che crea queste condizioni, non chi arriva in Italia in cerca di una vita migliore. Se vogliamo uscire da questa spirale, dobbiamo riconoscere una verità fondamentale: i lavoratori autoctoni e quelli migranti condividono lo stesso nemico, entrambi sono vittime di un sistema che li sfrutta, li divide e li contrappone, la vera sfida è costruire una solidarietà di classe internazionale, capace di superare le barriere etniche e nazionali.
Un esempio storico può aiutarci a capire questa dinamica: durante gli scioperi dei braccianti negli Stati Uniti negli anni ’60, i lavoratori messicani e afroamericani si unirono contro i padroni agricoli, dimostrando che la solidarietà è più forte delle divisioni imposte dall’alto.
In Italia, abbiamo bisogno di un movimento simile, che unisca lavoratori autoctoni e migranti nella lotta per salari dignitosi, condizioni di lavoro sicure e diritti sociali universali.
Perché è chiaro: finché restiamo divisi, il capitale continuerà a vincere e l’immigrazione, da problema, diventerà una risorsa solo quando saremo in grado di rovesciare il sistema che la utilizza come arma contro di noi.
Come recitavano un vecchio barbuto nato a Treviri e l’altro nato a Barmen “Proletari di tutti i Paesi, unitevi!” non è solo un motto: è una necessità storica.
6) Conclusioni: Distruggere il vecchio, costruire il nuovo – Proposte per una società socialista

Le pagine che avete letto non sono un lamento sterile: sono un atto d’accusa e, allo stesso tempo, un grido di battaglia. Il sistema capitalista ci ha trascinati nel baratro, ma non è scritto da nessuna parte che dobbiamo accettarlo. È arrivato il momento di passare al contrattacco, di immaginare e costruire un’alternativa che metta al centro le persone e non i profitti. Ecco le nostre proposte, chiare e senza giri di parole:
Un piano straordinario per il lavoro dignitoso
Fine immediata della precarietà: contratti a tempo indeterminato per tutti, abolizione delle agenzie interinali e delle forme di lavoro “a chiamata”.
Salario universale minimo garantito di 1.500 euro netti al mese per chiunque lavori. Nessuno deve più scegliere tra pagare l’affitto e mettere il cibo in tavola.
Riduzione della settimana lavorativa a 32 ore, a parità di salario, per combattere la disoccupazione e migliorare la qualità della vita.
Un welfare universale per tutti
Sanità e istruzione pubbliche, gratuite e di qualità: via i tagli, via le privatizzazioni. Chi ha distrutto i nostri ospedali e le nostre scuole deve pagare, con una tassa straordinaria sulle grandi ricchezze.
Investimenti massicci nei servizi sociali: case popolari per chi ne ha bisogno, trasporti pubblici efficienti e gratuiti, centri culturali e sportivi per restituire dignità alle periferie.
Un’accoglienza che unisce, non che divide
Basta con i centri di detenzione per migranti: creiamo percorsi reali di integrazione, con accesso garantito al lavoro, alla formazione e alla casa.
Parità di diritti tra lavoratori autoctoni e migranti: stesse tutele, stessi salari, stesse opportunità. Dividere i lavoratori serve solo ai padroni.
Superamento del modello “fortezza Europa”: investire nei paesi d’origine per smantellare le cause dei flussi migratori, a partire dalle politiche predatorie delle multinazionali occidentali.
Una giustizia per i lavoratori, non per i padroni
Assistenza legale gratuita per tutti i lavoratori sotto processo per motivi legati al proprio lavoro.
Responsabilità penale diretta per i datori di lavoro che impongono condizioni insostenibili o che risparmiano sulla sicurezza.
Riconoscimento dei sindacati di base e delle assemblee operaie come pilastri della contrattazione collettiva, per restituire voce a chi lavora.
Forze dell’ordine al servizio dei lavoratori, non del capitale
Formazione politica e sociale per chi lavora nelle forze dell’ordine, per smascherare le vere cause delle tensioni sociali.
Garantire loro condizioni di lavoro dignitose, senza riduzioni di personale o tagli alle risorse, per allentare la pressione psicologica e operativa.
Creazione di corpi di sicurezza popolare, che rispondano alle esigenze delle comunità e non agli interessi dei potenti.
Un’economia pianificata al servizio della collettività
Nazionalizzazione delle grandi industrie strategiche e dei servizi essenziali: energia, trasporti, telecomunicazioni devono tornare sotto controllo pubblico.
Creazione di cooperative di lavoratori per gestire le imprese abbandonate o fallite dai privati.
Transizione ecologica guidata, con investimenti pubblici per trasformare il nostro modello produttivo e garantire un futuro sostenibile.
Non è il tempo dei compromessi. È il tempo dell’azione.Ogni riforma che proponiamo qui non è una “concessione” ai potenti, ma un primo passo verso una rivoluzione sociale. La posta in gioco non è solo il futuro del nostro Paese: è il futuro delle nostre vite, delle nostre famiglie, delle nostre comunità.
Le élite hanno paura di un popolo che si organizza, che alza la testa e che smette di credere alle loro menzogne, sta a noi dimostrare che hanno ragione ad aver paura.
Questo sistema non è eterno, e il cambiamento non arriverà dai palazzi del potere, nè dal semplice voto della cabina elettorale, ma prima di tutto dalle strade, dai luoghi di lavoro, dalle assemblee.
È ora di alzarsi, unirsi e combattere: non siamo soli e non ci fermeremo.
Scrivevamo sui muri una volta, e ancora scriveremo: “Se ci bloccano il futuro, noi blocchiamo il sistema!”
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